22 settembre 2024
XXV Domenica del Tempo Ordinario B
Mc 9,30-37
Il brano di Vangelo che abbiamo ascoltato domenica scorsa (Mc 8,27-35) si pone, nel racconto di Marco, come uno spartiacque: Pietro aveva sì riconosciuto in Gesù il Messia atteso da Israele, ma, con il suo rimprovero (Mc 8,32), aveva mostrato di non avere un’attesa diversa da quella di tutto il popolo, ossia l’attesa di un Messia potente e liberatore, un Messia forte e capace di liberarli dall’invasore romano.
Nella seconda parte del Vangelo, che inizia proprio con quell’episodio, Gesù concentra tutta la sua attenzione e la sua premura nel fare una cosa soltanto, nell’istruire i suoi discepoli sulla sua vera identità, sullo stile della sua missione. Diminuiscono i miracoli, e Gesù sta soprattutto con i suoi, mentre si incammina verso Gerusalemme.
Così inizia il brano di oggi (Mc 9,30-37): Gesù e i discepoli attraversano la Galilea, ma Gesù fa in modo che nessuno lo sappia (“Egli non voleva che alcuno lo sapesse” - Mc 9,30), perché ha bisogno di stare con i discepoli e di rivelare loro ciò che loro ancora non comprendono, qualcosa che sarà particolarmente difficile da capire e da accettare: la sua morte e la sua risurrezione.
L’oggetto dell’insegnamento di Gesù, infatti, è uno solo, la Pasqua. Quello sarà il modo con cui Gesù si caricherà sulle spalle il male degli uomini, di ogni uomo, e sarà per tutti guarigione e salvezza; questo sarà il suo modo di essere il Messia atteso, il pastore del popolo di Dio.
Gesù affronterà apertamente l’argomento per tre volte, ed ogni volta la reazione dei discepoli è quella di chi non vuole o non può capire. Oggi vediamo il secondo di questo tentativo di Gesù, dopo aver visto il primo proprio domenica scorsa, insieme alla conseguente reazione di Pietro.
Gesù, dunque, ripete l’annuncio della sua passione e della sua resurrezione (“Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” - Mc 9,31). Non separa mai questi due momenti, la morte e la risurrezione, ed è questo il vero, grande insegnamento: non c’è gloria che non passi per il dono di sé, e non c’è dono di sé che non porti alla gloria.
Ma per i discepoli queste parole sono incomprensibili (Mc 9,32): non perché sia un linguaggio astruso, con parole difficili. Sono incomprensibili perché parlano di una realtà inaccettabile, una realtà troppo distante dalle idee e dall’immaginario che è radicato nelle loro menti.
I discepoli non vogliono capire, e il segno è che pur non avendo capito, non chiedono spiegazioni (“Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo” - Mc 9,32).
Invece di chiedere spiegazioni, i discepoli parlano di altro. È un modo per mettere a tacere la Parola della croce, per coprirla con altre parole, per non darle spazio, per dimenticarla, per non farla entrare nella propria vita. Tante delle nostre parole hanno a volte questo scopo, non di aiutarci ad entrare nel mistero della Pasqua che abita la nostra vita, ma per restarne fuori, per distrarci, per anestetizzarci un po’.
Ciò di cui parlano i discepoli è esattamente il contrario della Parola della croce. Essi parlano le parole della grandezza, del potere, di chi fra loro è più importante (“avevano discusso tra loro chi fosse più grande” - Mc 9,34): danno voce ai desideri profondi che orientano la loro vita.
Gesù però, a differenza dei discepoli, non ha paura di interrogarli ed è lui a chiedere spiegazioni di quello di cui stavano parlando (“chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?” - Mc 9,33).
La risposta dei discepoli alla domanda di Gesù è il silenzio (“Ed essi tacevano” – Mc 9,34): non avendo ascoltato la Parola della croce, non hanno parole vere e “corrette”, come quelle che abbiamo viste pronunciate dall’uomo guarito del Vangelo di due domeniche fa (Mc 7,35).
Il cuore dei discepoli non è ancora un cuore guarito: insegue invano sogni di grandezza che nulla hanno a che fare con la vera gloria.
La buona notizia di oggi è che Gesù non si ferma al nostro mutismo, e nemmeno alla nostra paura.
Ai discepoli, che ancora non sanno ascoltare la Parola della Pasqua, Gesù mostra un simbolo evocativo di cosa sia la vera grandezza.
Il simbolo è l’abbraccio con cui Gesù accoglie un bambino (Mc 9,36), per dire che la vera grandezza è dove si è capaci di accogliere gli altri così come sono, facendosi pane per la fame di ogni piccolo.
+ Pierbattista