Domanda:
“I conflitti e le guerre in Medioriente sembrano irrisolvibili. Tanti tentavi hanno forse evitato ulteriori escalation ma una vera pace sembra lontana.
Fra ribellioni e rassegnazioni, fra tanta retorica vuota e ideologie fuorvianti, come vive Lei il suo impegno per la pace e per la giustizia?”
Parlare di pace e giustizia in Terra Santa è sempre faticoso. Compito che si cerca di eludere sempre più spesso, sia per evitare, come dice lei “retorica e vuota ideologia” che per anni hanno riempito riunioni, discussioni e assemblee di vario tipo, e di cui oggi sono un po’ tutti saturi, sia perché giustizia e pace sembrano proprio un miraggio sempre più lontano, che lascia negli animi sensazioni di frustrazione e sfiducia, quando non “ribellioni e rassegnazioni”. Per questa ragione, evito quanto più possibile di parlarne. Come pastore della Chiesa di Gerusalemme, considero più fruttuoso parlare alla mia comunità ecclesiale di unità, di capacità di buone relazioni come qualcosa di costitutivo della vita della Chiesa, tra noi e con chiunque altro, piuttosto che di parole come “pace e giustizia”, “speranza”, “futuro”, per evitare di scadere nel banale e quindi nell’insignificanza. Sono sempre più convinto, inoltre, che non si può parlare di speranza se non si ha una fede, perché la speranza è figlia della fede. Parlare oggi di speranza, senza porla in un contesto di fede e fiducia, è davvero retorica, come dice lei.
Ma torniamo alla domanda che mi ha fatto: come mai allora ho accettato di parlare in questa sede di “giustizia e pace”? L’ho fatto perché mi avete proposto di affrontare questo argomento da un’angolatura molto precisa, quella personale, chiedendomi, cioè, come io vivo il mio impegno per la pace e la giustizia.
Questo mi permette forse di affrontare l’argomento in modo più concreto e significativo.
Se oggi è vero, infatti, che, sul piano politico e istituzionale parlare di pace e giustizia in Medio Oriente e in Terra Santa è un po’ come stare dalla parte di chi combatte contro i mulini a vento, è altresì vero che il desiderio di pace e giustizia deve trovare posto nel cuore di ognuno, soprattutto in chi ha responsabilità. Deve essere chiaro in ognuno di noi, e soprattutto per noi credenti, che l’impegno per la pace e la giustizia non è un di più nella vita di fede, un elemento accessorio, di cui si può fare a meno. Al contrario, la fede in Dio genera immediatamente un desiderio di bene per ogni uomo o, per dirla con il tema del Meeting di quest’anno, una “passione” irresistibile per l’uomo, affinché abbia una vita degna della sua vocazione di persona creata ad immagine e somiglianza di Dio.
Prima di dire come io vivo il mio impegno in questo senso, comunque, ho bisogno almeno brevemente di delineare il contesto in cui vivo, perché sia più chiaro in cosa consiste tale impegno, e se e come lo esprimo. Non intendo qui presentare le complesse dinamiche politiche, religiose e sociali della Terra Santa. Oltre ad essere ormai abbastanza conosciute, almeno per sommi capi, ci sono innumerevoli studi sul tema che chiunque può trovare. Del resto, prenderebbe troppo tempo e penso che sarebbe comunque poco interessante. Mi basta dire che sul piano politico e sociale, al quale si accoda quello religioso, ciò che è comune a tutti, israeliani e palestinesi, è la mancanza di fiducia. Nessuno più si fida dell’altro, sul piano politico come su quello sociale. In entrambe le popolazioni non si vuole nemmeno sentire parlare del cosiddetto “processo di pace”, dopo i tanti fallimenti e tradimenti di quel processo. La politica, da ambo i lati del muro, è debole: cinque elezioni politiche in due anni in Israele, nessuna elezione politica in Palestina dal 2005. Mancanza di leadership politica, polarizzazione sempre più accentuata delle posizioni politiche dall’una e dall’altra parte, mancanza di visione, disparità economiche e sociali enormi tra palestinesi e israeliani… A Gaza, la situazione è ancora più problematica: due milioni di persone rinchiuse dentro una piccolissima striscia di terra, in una situazione di grave povertà, altissima disoccupazione, privi di acqua ed elettricità per diverse ore durante la giornata, con un regime sempre più in difficoltà e allo stesso tempo invasivo nella vita della popolazione e delle istituzioni… In Cisgiordania, da un lato l’espansione degli insediamenti rende sempre più labili le prospettive di un possibile, seppur lontano, accordo. Dall’altro, è sempre più debole la presa dell’autorità palestinese sulla vita del territorio. È sempre più profonda e dolorosa tra i palestinesi, inoltre, la sensazione di abbandono della loro causa da parte della comunità internazionale, l’impressione che l’occupazione di cui sono vittime non interessi più come un tempo e che siano rimasti soli a lottare per i loro diritti, per l’indipendenza del loro Paese, la Palestina, e per una vita degna. La lista degli aspetti di crisi, insomma, è lunga, ma mi fermo qui. Questi sono solo alcuni degli elementi che comunque sono alla base della vita della mia comunità, nella quale sono stato chiamato ad operare.
Che significa, allora, in questo contesto, impegnarsi per la giustizia e la pace? Come questo impegno costruisce la mia vita e il mio ruolo di pastore, chiamato a dire una parola chiara, di verità – certamente - ma anche che allo stesso tempo una parola che dia fiducia? Una parola che apra prospettive, che non chiuda me stesso e la mia comunità in un atteggiamento di rassegnazione o ribellione, soprattutto nel già menzionato contesto di sfiducia e di assenza di dinamiche politiche di reale cambiamento?
Prima di tutto è necessario che tale impegno sia un reale convincimento personale. Non si può separare ciò che si dice, da chi lo dice. La credibilità del testimone è la precondizione necessaria per ogni serio impegno. Non avrebbe senso e non funzionerebbe in alcun modo l’opera di una Chiesa che parli a favore della giustizia e la pace, se il suo pastore non ci credesse davvero. Bisogna veramente essere convinti e profondamente coscienti che in questo contesto lacerato, l’impegno per la giustizia e la pace deve essere – come dicevo – la prima ed immediata espressione della propria vita di fede. Se il mio compito primario di pastore è quello di custodire la presenza di Dio nella vita reale della comunità, mi deve anche essere chiaro che difendere i diritti di Dio significa anche difendere i diritti dell’uomo, e viceversa. Non si possono separare questi due aspetti.
Ogni pastore, inoltre, porta necessariamente in questo personale impegno la sua personalità, la sua esperienza di vita, la sua sensibilità, la sua storia.
Non avrebbe senso per me, ad esempio, parlare di giustizia e pace come ne hanno parlato i miei predecessori, come il patriarca Sabbah, ad esempio. E questo sia perché i tempi sono cambiati, sia perché provengo da una storia e da una esperienza diverse, e il mio impegno, il mio parlare - per essere credibili - devono essere coerenti con quello che sono. Allo stesso tempo è importante avere coscienza che il mio essere qui in Terra Santa come pastore, non è per caso, ma è per Provvidenza, e che la Provvidenza, in questo momento, ha bisogno dell’impegno per la giustizia e la pace secondo il mio stile, la mia personale esperienza, che ho il dovere di trasmettere alla mia comunità. Sono ovviamente anche cosciente, che la comunicazione deve essere a doppio senso: che la mia storia, la mia personalità ed esperienza si devono arricchire di ascolto e partecipazione da parte della mia comunità, che ha il diritto di trovare in me un cuore attento e capace di comprendere.
E qual è, allora, il mio stile, cosa mi sta a cuore in questo impegno, cosa mi disturba e mi inquieta?
Credo che non si possa parlare seriamente di Giustizia e Pace da una prospettiva cristiana, senza aggiungere la parola Perdono, che però in Terra Santa è considerata quasi tabù.
Sono convinto che non si potranno superare gli ostacoli odierni nel cammino di riconciliazione, né progettare un futuro sereno, se non si avrà il coraggio di purificare la propria lettura della storia dall’enorme bagaglio di dolore e ingiustizie che ancora condizionano pesantemente il presente e le scelte che spesso oggi si compiono. Non si tratta di dimenticare, certamente. Sarà tuttavia assai arduo costruire un futuro sereno se si pone alla base della propria identità personale, sociale e nazionale “l’essere vittima”, anziché fondare le proprie prospettive su una comune speranza. Il perdono è un ingrediente necessario per superare questa impasse. Non ci può essere alcuna purificazione delle relazioni, se non si ha il coraggio di parlare di perdono, di iniziare percorsi di riconciliazione, non solo a livello di piccole nicchie, di gruppi, ma in un contesto più generale, sia politico che religioso.
Non è un tema scontato: nel contesto politico israelo-palestinese il perdono è inteso come sinonimo di rinuncia alla difesa dei propri diritti. Le varie matrici culturali e religiose locali, inoltre, hanno un influsso enorme su questo tema. Ebraismo, Islam e cristianesimo, cioè, hanno un approccio molto diverso all’esperienza del perdono, che viene spesso inteso un po’ da tutti come sinonimo di debolezza.
Questo discorso, comunque, richiede innanzitutto la mia personale disponibilità a vivere il perdono, ad essere io stesso riconciliato, a far sì che la mia comunità veda in me che la riconciliazione e il perdono non sono parole, ma vita vissuta, visibile e tangibile, e che il perdono genera la Pace. Devono vedere in me una persona pacificata, capace di fare sintesi vitale tra fede in Dio e vita.
Per quanto riguarda l’impatto sulla vita reale della mia gente, infatti, occorre tenere presente un interrogativo, al quale non è semplice rispondere: come posso aiutare a ripensare la propria storia ed a purificare la memoria, come posso parlare di perdono al mio popolo, finché il suo presente è segnato da ingiustizia e dolore? “Per te italiano è facile parlare di pace, giustizia e perdono, ma per noi che viviamo ogni giorno dentro queste difficoltà come credi che sia possibile parlare di perdono?”, mi dicono spesso. Non è facile rispondere, dicevo, eppure resto convinto che parlare di perdono sia necessario, pur cosciente che è necessario allo stesso tempo anche ascoltare e dare voce a quella resistenza al perdono. Una conciliazione e una sintesi difficile e sempre dolorosa, che non sempre funziona. Restare dentro questa lacerazione e viverla è anch’esso parte del mio servizio, senza avere la pretesa di imporre soluzioni, ma semplicemente “stando” in questa attesa allo stesso tempo fiduciosa e dolorosa, carica di speranza in un cambiamento possibile, faticosa, ma fondata nella fede nel Dio provvidente.
E qui subentra un altro aspetto, di cui si parla poco, ma che è essenziale nel servizio che svolgo: la solitudine. Impegnarsi per la giustizia e la pace, insieme al perdono, non è cosa che suscita immediata comprensione. Stare dentro situazioni in cui è richiesta piena adesione da una parte o dall’altra, dare voce alla richiesta di diritti e di giustizia per chi è ferito e offeso nella sua dignità di persona o di popolo, senza però cedere alla tentazione di escludere, rifiutare, ostracizzare, richiede necessariamente anche di accettare di essere per lo meno incompreso. Non è scontato che le mie parole siano comprese, che il mio stile sia accolto. Ma se questa è una convinzione personale, interiore, sincera, fondata nella fede, allora bisogna anche sapere accettare l’inevitabile, conseguente solitudine, come via necessaria perché possa a suo tempo portare frutto. Solitudine che solo una relazione seria e solida con Cristo può sostenere. Non credo sia possibile impegnarsi veramente e da credente per la giustizia e per la pace, e contemporaneamente essere acclamato.
Da molti anni, mi accompagna in questo discernimento un passaggio evangelico: la drammatica scelta che s’impone al popolo tra Gesù e Barabba. Si tratta di una scelta che è posta innanzi a ciascuno di noi, ogni giorno. Pilato mostra al popolo due figure di Messia: Gesù e Barabba. Barabba, in aramaico, significa “Figlio di papà”. È un titolo che scimmiotta la figura di Gesù, il vero Bar-Abba, il Figlio del Padre che chiama quest’ultimo “Abbà”. Barabba era un attivista, come si direbbe oggi: lottava per la liberazione del suo popolo. Aveva un suo seguito, voleva giustizia, libertà, dignità per il suo popolo: il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente e niente affatto utopico. Dall’altra parte c’era Gesù.
Come Patriarca latino di Gerusalemme, mi sono trovato, fin dall’inizio, in una situazione che richiede una scelta, una presa di posizione chiara e precisa di fronte al conflitto più o meno armato che ho descritto all’inizio. Come conciliare questa richiesta di schieramento con quello che sono e con quanto ho appena detto riguardo al perdono? Più in generale, mi pongo frequentemente la domanda di come difendere i diritti di Dio e dell’uomo in questo contesto, come cioè parlare di perdono, essere fedeli a Cristo che sulla croce perdona gratuitamente, senza dare l’impressione di non difendere il gregge a me affidato, i suoi diritti, le sue attese? Cosa significa concretamente stare dalla parte di Gesù e non di Barabba? Come predicare l’amore ai nemici senza dare l’impressione di confermare involontariamente una narrativa contro l’altra, israeliana contro quella palestinese, o viceversa? Come risanare le divisioni con scelte ferme e giuste, ma senza creare altre divisioni e sempre con misericordia? Come essere Vescovo, chiedendo obbedienza, ma porgendo l’altra guancia a chi non obbedisce e fomenta conflitti? Ogni giorno anch’io sono obbligato alla scelta: Gesù o Barabba.
In Medio Oriente, a Gerusalemme come ad Aleppo, ogni cristiano, come me, è posto dinanzi a questa drammatica scelta: Gesù o Barabba? Morire sulla croce o combattere?
Come si può parlare di liberazione dalla schiavitù del peccato, e di perdono, quando il tuo popolo soffre per la dominazione di un’autorità straniera? È lecito misurare il dolore e le perdite di vite in base al criterio della quantità? Più concretamente, mi si chiede spesso: “Come posso pensare di perdonare l’israeliano che mi opprime, finché sono sotto oppressione? Non significherebbe dargliela vinta, lasciargli campo libero senza difendere i miei diritti? Prima di parlare di perdono non è forse necessario che si faccia giustizia?”. L’israeliano, a sua volta, potrà aggiungere: “Come posso perdonare chi uccide la mia gente?”. Sono domande dietro alle quali vi è un dolore reale, sincero. “Come si può parlare di relazione con il “Padre che è nei cieli” – insomma - quando tuo figlio, tuo padre, tua madre sono uccisi, o arrestati e umiliati davanti ai tuoi occhi? Come si può parlare di gioia nello Spirito, quando sono privato dei miei diritti fondamentali?”. In fondo, Barabba non è così male. Anzi, è ragionevole.
È chiaro che scegliere Cristo non è scegliere l’indifferenza al male del mondo. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuol fare una sorta di nuove crociate, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Eppure, in fin dei conti, il cristiano ha scelto Cristo, e questi è morto in croce, fallito e sconfitto. Dal punto di vista strettamente umano, non c’è alcun dubbio che il perdono assomigli ad una sconfitta. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali e politici del suo tempo. Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quella oppressione umana. Non ha operato una liberazione, ma la liberazione. Ha ricuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro.
Di fronte al male del mondo, in conclusione, il mio dovere di pastore, allora, sta nel dire che il compito del cristiano è semplicemente quello di soffrire, di morire in croce come Gesù, di lasciarsi trafiggere, di farsi sconfiggere? Che il cristiano non ha nulla da dire di fronte al dramma che ha davanti? Certamente no.
Di fronte alla situazione del Medio Oriente certamente il cristiano si dà da fare come qualsiasi altro, perché la giustizia, la pace, la libertà, la dignità, l’uguaglianza tra gli uomini sono atteggiamenti di cui lui ha fatto esperienza personale, che gli appartengono e che vuole diventino comuni a tutti, e collabora con tutti, senza esclusioni, per realizzare questo desiderio. Il cristiano vuole e lotta per la giustizia e la dignità perché appartengono all'armonia riconsegnataci, ma non si lascia sconvolgere dal male che è di fronte a lui, anche se ne soffre come chiunque altro, perché è già stato liberato e redento. Secondo la mentalità di Barabba, comunque, questo modo di impegnarsi per la giustizia e la pace è un fallimento, non porterà a nulla. È una strategia di pii desideri senza futuro. Secondo questa visione, il cristianesimo in Medio Oriente è impotente, finito, schiacciato.
La testimonianza di tante persone, invece, soprattutto dei piccoli, dei poveri, quelli che non hanno nulla, ci dice che molto è distrutto, ma il seme è rimasto e da lì rinascerà nuovamente la vita.
Posso portare l’esperienza della comunità cristiana di Gaza.
È una comunità piccola, poche centinaia di persone in un mare di due milioni di persone, che ha tutti i diritti di sentirsi schiacciata, limitata nei suoi diritti, con enormi difficoltà, non solo economiche. Ma forse proprio il forte carattere religioso che pervade la striscia di Gaza, influisce su questa piccola comunità, la cui vita ruota tutta attorno alla Chiesa. Tre comunità religiose femminili e una maschile si dedicano al mondo della disabilità e della scuola, frequentata quasi esclusivamente da musulmani, oltre che al servizio alla comunità cristiana. La Caritas sparsa lungo tutta la Striscia, da Nord a Sud, si dedica a quanti non hanno accesso alle cure mediche. Ho personalmente incontrato famiglie che non hanno nulla, ma proprio nulla, che vivono in tuguri di lamiera, senza nulla, dove la Caritas è presente con il suo personale, cristiano e musulmano, totalmente dedicato alla loro missione e con una comune passione: fare qualcosa di utile per la propria gente, dare speranza con gesti semplici ma anche concreti, come comprare un frigorifero, un fornello, un bagno, scarpe per i bambini… cose banali, per noi, ma importanti per chi non ha nulla. Ma soprattutto è stata per me una consolazione sentire da questi ragazzi, che la loro prima preoccupazione è ascoltare e non permettere che alcuno si senta solo.
Non ho sentito in tante visite a quella comunità, una sola parola di rancore nei confronti di alcuno. Al contrario, più volte hanno espresso la loro attenzione a non permettere che il loro cuore si inaridisca in sentimenti di odio, di ribellione, di rabbia. Mi piace citare la testimonianza di Ghada, cristiana di Gaza, che ha avuto il coraggio di venire a Gerusalemme e testimoniare alla Chiesa riunita nella veglia di Pentecoste, che non rinuncia al suo desiderio di giustizia per il suo popolo e per Gaza, ma che non vuole coltivare odio verso nessuno e che chiede ogni giorno al Signore la grazia e la forza del perdono. Sono una goccia nell’oceano, è vero, ma è anche lo stile di una comunità ecclesiale che non è ripiegata su se stessa e che ha il coraggio di scommettere sul futuro insieme. Coraggio e speranza che si fondano su una fede convinta, non di maniera, e che dà forza a loro e anche a noi che li incontriamo. Sono questi i piccoli che costruiscono concretamente e realmente la speranza per il futuro.
Per me è chiaro che Gesù non deve prendere il volto di Barabba: nella Chiesa, la giustizia non deve diventare giustizialismo, la trasparenza non deve tramutarsi in gogna, la giustizia della Croce non può annacquarsi nella giustizia mondana. Per l’una e l’altra parte del conflitto ho il dovere di testimoniare la partecipazione della mia comunità ai drammi e alle speranze dei due popoli. Devono poter contare sul fatto che un cristiano non è mai passivo, indifferente, rassegnato. La nostra vocazione è evitare che il conflitto entri nel cuore delle persone, bruci la loro fede e speranza, e diventi un modo di pensare. Negare l’uno l’esistenza dell’altro, o avere paura l’uno dell’altro, rifiutare l’altro, anzi sapere che c’è ma rifiutarlo: per il cristiano non dovrebbe essere così. Stare a Gerusalemme per un cristiano vuol dire anche “stare sulla croce”. E questo significa non solo fare proprio il dolore degli altri, ma imparare a perdonare, come Gesù ha perdonato il ladrone pentito sulla croce. Se vogliamo stare sulla croce con Gesù, allora, siamo chiamati, come Ghada di Gaza, a chiedere la grazia del perdono. Siamo chiamati a desiderare la salvezza per tutti, anche per i ladroni, anche per Barabba. Per me dunque essere cristiano in Terra Santa significa difendere il carattere cristiano della Terra Santa: non solo difendere gli uomini (defensor civitatis) e gli spazi fisici (custodia dei luoghi santi e status quo), ma innanzitutto e soprattutto difendere questa testimonianza-martirio.
In conclusione, mi chiedo continuamente quale sia, nel mio contesto specifico, che forse può essere differente rispetto ad altri contesti, il modo di stare dentro queste complesse situazioni e di impegnarsi per la giustizia e la pace vere, vissute e sperimentate e non “vuota retorica e ideologia”. Posso dire che è bene diffidare da chi offre risposte certe, chiare, facili. Le risposte facili in contesti complessi e feriti come il nostro sono sempre fallaci.
Credo che spesso si tratti soprattutto di stare, esserci, dentro quel mondo ferito, di accettare a volte di non avere altre soluzioni che stare lì, essere vicino, farsi prossimo, senza la pretesa di insegnare a perdonare, ma cercando di condividere. L’unico modo per insegnare il perdono, la giustizia e la pace è sperimentarli sulla propria persona e testimoniarli. Un esercizio accademico, o una decisione politica potranno ratificare o spiegare, ma mai precedere la decisione di impegnarsi per la pace, la giustizia e il perdono, che è frutto di un’opzione del cuore.
Perché diciamolo, in fondo “perdono” non è altro che sinonimo di “amore”. E solo un amore grande per Dio e per la propria comunità può dare fondamento e senso al nostro impegno per la pace e la giustizia e ad un gesto così autenticamente rivoluzionario come il perdono.